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ROMA STA A GUARDARE

         Le sue rare doti di mente e di cuore l’avevano messo in vista presso i superiori e i concittadini per cui fu eletto Guardiano di  Ancona; la stima degli uomini si ingrandì tanto che i Frati delle Marche lo elessero Superiore Provinciale; ma la fama della sua santità, unitamente alle sue doti di governo e di apostolato, oltrepassarono ben presto i confini della regione.

Ad “Ara Coeli”, centrale dell’Ordine Serafico, era pervenuta chiara l’eco delle sue virtù e delle sue doti singolari. Da Roma, il Ministro Generale dell’Ordine, Fra Guglielmo da Casale, aveva puntato gli occhi su Frate Gabriele.

 

SAN GIACOMO ASPETTA GABRIELE IN BOSNIA

            La Chiesa stava reclutando i figli migliori dell’Ordine francescano per la “Crociata della Verità“ nei paesi del Danubio.

Quando San Giacomo della Marca, che predicava in Bosnia con il fior fiore di Apostoli Frati Minori, ebbe bisogno di nuovi operai specializzati per combattere l’eresia manichea, suggerì il nome di Fra Gabriele. L’amicizia spirituale di San Giacomo col Beato era grande; e Fra Gabriele non poteva dire di no. Il Ministro Generale Fra Guglielmo poi, aveva comandato, e il Servo di Dio non poteva disubbidire.

Il campo di lavoro era arduo e difficile per le eresie che infestavano la Bosnia, e il Beato si armava per partire alla conquista del Regno di Cristo.

Il Padre Gabriele era in quel tempo Vicario Provinciale e percorreva il Piceno con grande frutto spirituale, nel difficile compito di Ministro dei Frati Minori.

In mezzo al vasto e intenso lavoro, non dimenticava Capodimonte e la sua città. Anzi a “San Francesco ad Alto” lo sentivano sempre vicino e gli anconitani continuavano a rivolgersi a lui in molte circostanze.

Quando si sparse la notizia dell’imminente partenza di Padre Gabriele per i Balcani, il consiglio municipale di Ancona del 22 Febbraio 1438 si riunisce e delibera di presentare subito una supplica allo stesso sommo Pontefice Eugenio IV, perché voglia dispensare il Frate anconitano dal recarsi a predicare in Bosnia.

Nessuno voleva rassegnarsi a vederlo partire dalle Marche e dall’Italia, e specialmente Ancona non poteva restare priva dell’amorevole assistenza del suo illustre e santo concittadino.

 

IL PERICOLO SCONGIURATO

             In Bosnia San Giacomo aveva avuto ragione dell’eresia dei Manichei; e, dopo averla estirpata con la sua eloquenza, si trasferiva con tutta la sua volante serafica nel regno di Boemia per mettere pace tra quel popolo e l’imperatore Sigismondo.

Le ultime notizie della Bosnia arrivarono velocemente a Roma, e Frate Gabriele non partì più, perché gli eretici erano stati sgominati!

Così il Beato restò nelle Marche e, come abbiamo detto in altra parte, continuò il suo buon governo nel Piceno Serafico, propagando il movimento francescano, operando conversioni e compiendo opere di santità in mezzo al popolo.

 

RITORNO AD ANCONA

            Era ormai avanzato negli anni, ma San Giacomo della Marca, Vicario Provinciale, pregò Gabriele di riprendere ad Ancona l’ufficio di Guardiano del convento di Capodimonte (circa il 1449).

Questo ritorno del Beato nella città dorica per la seconda volta Superiore del convento di “San Francesco ad Alto” suscitò un’ondata di sincero entusiasmo e tutti considerarono una grazia del cielo la sua presenza in città. Egli infatti apparve ai suoi concittadini e ai religiosi non più un uomo terreno, ma un angelo.

La sua santità s’imponeva all’ammirazione di tutti e Ancona ricominciò il suo pellegrinaggio quotidiano a Capodimonte per ricevere la benedizione prodigiosa del Beato e i frutti della sua sapienza.

 

UN PANE DI ZUCCHERO E UN TAPPETO

                La santità vuole chiarirsi ogni giorno di più: perciò Iddio permise proprio in questo secondo guardianato  del Beato, un episodio singolare per perfezionare la graziosa umiltà del suo Servo.

Padre Gabriele fu accusato, ed esageratamente, al Vicario Provinciale, San Giacomo della Marca, forse per qualche lieve difetto. San Giacomo della Marca impose subito al guardiano di Ancona di dire la sua colpa in pubblico e di flagellarsi davanti ai suoi frati.

Il Beato, riunita subito la comunità, si sottopose con santa ilarità al comando del Vicario Provinciale e i religiosi ne furono commossi.

Il gesto di San Giacomo aveva costato tanta umiltà al Servo di Dio, ma anche tanta gioia spirituale; perciò Gabriele volle esprimere al Superiore Provinciale la sua riconoscenza.

In quel tempo San Giacomo stava costruendo il convento di Monteprandone, quando gli giunse questa lettera, che accompagnava un grazioso dono del Beato Gabriele: “poiché Vostra Paternità troppo si affatica qua e là scorrendo e governando la provincia, le trasmetto un pane di zucchero, acciocché si possa confortare alquanto, e perché di fresco ha dato principio alla fabbrica di un convento in Monte Prandone, le dono un tappeto che servirà per adornare la chiesa”.

 

INTIMITA’ CON IL VESCOVO BEATO ANTONIO FATATI

                  I Frati di Capodimonte non dimenticarono più l’episodio di umiltà del Beato nell’eseguire la penitenza inflittagli da San Giacomo.

Da quel tempo in poi, le virtù del Beato Gabriele si chiarivano ogni giorno, e i Frati si ritenevano fortunati di averlo con loro.

Non sappiamo quando il suo secondo mandato di Guardiano ebbe termine (1452?), ma è quasi certo che il Beato non si mosse più da Ancona.

Infatti nel 1455, penultimo anno della sua vita, Egli scriveva al vescovo anconitano Mons. Antonio Fatati, eletto governatore della Marca nel 1450, dal Convento di “San Francesco ad Alto”, a Macerata.

Il venerando Presule e il Servo di Dio erano legati da profonda spirituale amicizia. Dall’esame poi di quel prezioso autografo, appare chiaramente che l’animo di Gabriele e l’animo del nobile vescovo Antonio, erano una cosa sola.

Il  Beato infatti, dopo aver detto che si sentiva ormai stanco per gli anni, formula auguri e impartisce consigli per il buon governo della sua diocesi; in ultimo confida con tutta umiltà serafica una necessità, per cui lo prega di provvedergli una tonaca nuova di panno pesante per difendersi dai rigori dell’inverno. La lettera è l’unico autografo del Beato che sia arrivato fino a noi. Il prezioso manoscritto si trova presso la famiglia Fatati di Ancona, discendenti del Vescovo Antonio.

Noi ne abbiamo riportato la traduzione del Padre Giacinto Pagnani nell’appendice di questo lavoro.

Il Beato Gabriele fu quindi un buon consigliere del santo Vescovo Fatati, che ricorreva a lui con animo fraterno, per attingere consigli alle limpide sorgenti della sua rara sapienza.

 

A 70 ANNI: “UN PECCATORE…”, “UN INDEGNO”

Aveva firmato la lettera, forse l’ultima, al Vescovo Antonio, così: “Pregate il Signore per me peccatore…. Indegno frate minore, nel luogo antico di Ancona, 29 gennaio 1455”. Il Servo di Dio era ormai all’apice della sua vita terrena; aveva settant’anni; e più si sentiva prossimo al Cielo più si inabissava nella sua umiltà. Con occhio cristallino aveva cercato di carpire le altezze infinite di Dio, che gli appariva immenso, santissimo… aveva militato con passione nelle file del Francescanesimo; si era sforzato di accumulare grandezze per il suo Ordine…

Noi diciamo perciò, forse perché limitati o temerari: “Gabriele, hai speso bene la tua vita; tu hai fruttato il cento per uno; riceverai la ricompensa del servo buono e fedele”. Lui, invece, insiste a chiamarsi: “un peccatore…”, “un indegno”!          

 

L’ULTIMA CROCE

Le sue ali erano ormai protese verso la mèta: “nel 1456, nota lo storico, il Beato Gabriele cade gravemente infermo nel convento di Capodimonte”.

In quell’anno San Giacomo della Marca esercitava nella Provincia Picena l’ufficio di Nunzio, predicando e raccogliendo elemosine per la campagna contro i Turchi, per incarico del papa Callisto III; appena il Santo seppe che Gabriele era  gravemente malato, lui e il suo compagno nell’apostolato, Fra Giorgio Albanese, corsero in Ancona a “San Francesco ad Alto”.

Quando i due Santi, amici del Servo di Dio, giunsero, Gabriele era in fine di vita.

Il male aveva ormai ragione del suo corpo stanco e fragile, mentre l’anima anelava ai riposi del Cielo.

 

LA CELLA PIENA DI LUCE

          Il Beato si rallegrò di quella fraterna  premura; li pregò di non allontanarsi perché la fine era prossima.

In quella cella povera, tutto sembrava ricco; tre grandi anime erano riunite a convegno; il cielo era disceso tra quattro mura per cantarvi il poema della più dolce fratellanza.

Il Beato si sentiva proprio rapito, avendo vicino Fra Giacomo e Frate Giorgio.

Li  volle ringraziare e profetizzò: “Rallegratevi ed esultate, perché i vostri nomi sono scritti in cielo”. Era il 12 novembre 1456: Gabriele spirava in un mare di luce!

I Frati di Capodimonte si raccolsero intorno al suo corpo, muti e sconvolti.

Ancona ebbe un brivido; il popolo pianse perché era morto il padre dei poveri.

 

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