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       Al tempo dei nostri racconti, quando l’Italia era divisa e stanca, chiunque lo avesse voluto, le avrebbe potuto dare l’assalto di giorno e di notte e portarsi via tutto ciò che avesse voluto.

       Un giorno dell’estate del 1393, anno di nascita del piccolo Domenico, un gruppo di masnadieri, che poi si seppe essere saraceni al comando di un certo terribile Mustafà con tanto di barba e baffi neri e puntuti da spaventare perfino le streghe, sbarcò con armi e cavalli sul lido adriatico nelle prossimità del fiume Tronto, il fiume che solca la pianura sottostante alla cittadina di Monteprandone, allora castello feudale in tutta regola.

       Passando inosservati tra canneti e boscaglie, in men che non si dica si trovarono a poche decine di passi dalle mura del castello.

       Dall’alto delle torri il grido di allarme delle scolte si sparse nel contado per convocare d’urgenza tutti alla difesa e avvertire i vecchi, le donne e i bambini rimasti nelle case che si ponessero al sicuro.

       Al suono della tromba faceva eco il suono a stormo delle campane.

       Tutti erano smarriti, come presi da un cattivo sogno; ma non era un sogno, era una triste realtà.

       Il gruppo dei briganti, con urla strozzate e sguaiate e minacce a non finire, stavano incitando nervosamente i loro cavalli all’assalto, ben sapendo che il segreto della loro riuscita risiedeva nella rapidità e fulmineità dell’impresa.

       La famiglia del piccolo Domenico che stava per nascere, aveva una casetta nel punto più alto del paese, proprio vicino alla chiesa medievale del castello, e il loro orticello si estendeva lungo la pendice del colle, da dove si poteva ammirare sia il mare che la cerchia dei monti Appennini, e il sole di mezzogiorno lo rendeva uno dei pezzi di terra più fertili dei dintorni.

       “Monna” Antonia, questo era il nome della mamma del nascituro Domenico, in tutto silenzio stava raccogliendo le verdure per il desinare, quando, sentendo il suono dell’allarme, le urla frenetiche di quei masnadieri, il nitrire nervoso dei cavalli e il ripetuto pesante scalpitio dei loro zoccoli, smise di lavorare, abbracciò tanta verdura quanta ne poteva portare e, prevedendo chissà quali sciagure, si diresse con tutta fretta verso la sua casetta non curandosi neppure delle verdure che disseminava qua e là.

       Ma lei, già in fase molto avanzata di gravidanza, sentiva di non poter correre come avrebbe voluto e stava in tanta pena per quello che sarebbe potuto accadere al suo paese e alla sua casetta e pregava in cuor suo il buon Dio e diceva: “Signore, abbi pietà del nostro castello, della mia casa, dei miei cari..!”.

       E, così dicendo, si soffermò e tergendosi il sudore, le sembrò di sentire una vocina flebile flebile come uscire dal cuore: “Mamma, non prenderti tanto affanno; va’ pure adagio, perché nessuno ci farà del male”.

       Monna Antonia si guardò intorno, pensando che fosse uno dei suoi tanti bambini a dirle così; ma no, proprio no, non c’era nessuno.

       “Eppure, si disse, io la vocina l’ho sentita davvero!”; e, riprendendo il cammino ancora con tanta ansia, dopo qualche passo sentì di nuovo: “Mamma, non ti affannare, ti ho detto; va’ pure adagio, perché nessuno ci farà del male”.

       Quei briganti, intanto, frantumata e sfondata con asce e mazze la porta del castello, entrarono con violenza e furore per le strette vie del paesello, minacciando tutti di morte e di sterminio se non avessero consentito loro di impadronirsi di quanto volevano; ma giunti davanti alla casa del nascituro Domenico, i loro cavalli si arrestarono di colpo e l’arresto improvviso quanto inatteso, li fece rotolare a terra, mescolandosi tra i finimenti delle bestie, le sacche della refurtiva, le armi. Chi si trovò sotto i cavalli, chi sotto i colleghi, chi in un mare di polvere; più d’uno si vide scorrere sangue dal viso, dalle ginocchia, dalle braccia; cercando di rialzarsi rapidamente per timore del peggio, andavano tastandosi le varie parti del corpo, come per assicurarsi che erano ancora tutti interi e avere la possibilità di svignarsela.

       Ma la loro sorpresa inaudita e incredibile si fu quando si accorsero che i cavalli non erano caduti, ma si erano messi in ginocchio con le zampe anteriori proprio nel piazzaletto davanti alla casa del santo fanciullo.

       Allora diventarono feroci; si misero a frustare implacabilmente quelle bestie, che sembravano essere più umane di loro, e con urla demoniache, calci e strattoni le incitavano a rialzarsi.

       Ma tutto era inutile, i cavalli non si muovevano.

       Allora inquieti, confusi e sempre più innervositi e sicuri che se avessero atteso ancora qualche momento sarebbero venuti gli uomini dai dintorni e li avrebbero caricati con una infinità di bastonate senza misericordia, lasciarono rapidamente ogni cosa, compresi i cavalli, e urlando e maledicendo tutto e tutti, supplicando Allah si precipitarono per i campi e per i boschi, ripresero il mare e non si videro più.

 

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