Quell’alberello semplice e silenzioso, a
rami giunchiformi, eretti, cilindrici, con foglie semplici e scarse che cadono
al finir della primavera per dare spazio a fiori odorosi e giallodorati, comune
nei boschi ma che, come per un atto di umiltà, sembra preferire i luoghi aridi
e deserti e si accontenta di un nulla, è la ginestra. Della famiglia delle
papilionacee, con una misura che va da pochi decimetri ai quattro o cinque
metri di altezza, non appartiene a nessuno; ma, così, è di tutti, specialmente
dei poveri che vanno a raccoglierla o per fare le fiorite nelle feste del
Patrono o per intiepidire la casa nei lunghi giorni d’inverno.
Ebbene, anche questa pianta solitaria,
che ospita tra i suoi rami piccoli ragni e ragnatele e che non ode che lo
stormire dei venti, il ronzio degli insetti e il frusciare delle lucertole tra
le foglie secche di cui è circondata, è voluta entrare nella storia del piccolo
Domenico Gangali, poi san Giacomo della Marca.
Si racconta, infatti, che un giorno la
mamma di lui, monna Antonia, prima che il bambino venisse alla luce, si sia
recata, attraverso sterpaie e calanchi argillosi e infidi, nella zona delle
solagne per fare un grosso fascio di quell’arbusto odoroso per aiutare alquanto
la modesta economia familiare.
Le solagne erano e sono costituite da un
susseguirsi di vasti dirupi assolati, ma scoscesi e aridi e limitati da esili
creste create da acque di lavamento.
Dopo tanto lavoro e sudore per tagliarle
e affastellarle, si mise la sparra sul capo e sopra la sparra l’enorme fascio
per risalire subito e faticosamente la lunga erta del colle dove sorgeva il
castello.
Giunta al paese, scaricò il grande peso
al lato della porta della sua casetta, lo sistemò ben benino accanto al muro e,
salendo alcune scalette sconnesse, entrò in cucina al piano terra per
riprendere le consuete faccende, chiudendosi l’uscio dietro di sé.
Per quel giorno non ci pensò più.
Ma il giorno dopo, giunta l’ora di
accendere il fuoco, aprì l’uscio per prendere le ginestre, ma... le ginestre...
le ginestre non c’erano più.
“Oh!, povera me, povera me” disse ad alta
voce mettendosi le mani sul capo e guardandosi attorno non credendo ai propri
occhi; “povera me, ripeté, le mie ginestre non ci sono più... come farò, è già
tardi e dove troverò un po’ di legna...?”. E si guardava attorno come colui
che, non ricordandosi dove ha messo una cosa, non trovandola, guarda in diversi
luoghi e fruga un po’ dovunque.
Ma la verità era proprio quella: le
ginestre non c’erano più. Nella notte, mentre gli adulti dormono e i piccini
sognano le stelle, una mano indelicata aveva commesso quella brutta azione.
Mamma Antonia non aveva altra legna e già pensava di ricorrere alle amiche
vicine, quando, asciugandosi le lacrime con il fazzoletto e mettendosi un
foulard in testa per uscire, sulla porta di casa sentì una vocina gentile
gentile che le diceva: “Fermati, mamma, non ti preoccupare, Dio provvederà”.
Monna Antonia si fermò sorpresa, si
guardò attorno pensando che qualcuno dei suoi bambini le avesse parlato così,
ma non ne vide nessuno; del resto sapeva che erano tutti a scuola o al lavoro.
Stava per scendere le scalette che
mettevano sulla piazzetta, quando risentì la stessa piccola voce: “Non ti
turbare, mamma, te l’ho già detto, e ti dico di più: in quella casa dal cui
camino uscirà tanto fumo e vi sentirai il fuoco crepitare, là ci sono le tue
ginestre; però devi tutto perdonare e subito”.
Mamma Antonia non poteva credere a se
stessa.
Rientrò in casa, aprì le porte delle
stanze, guardò accuratamente in ogni angolo, salì al piano di sopra, mise a
soqquadro tutti i locali per trovare colui che poteva averle detto tutte quelle
cose; ma ogni ricerca fu vana. No, quella voce non veniva da fuori, veniva da
dentro, dal suo cuore. Come presa da tanta angustia e dal mistero di quella
vocina, bussò alla porta di un’amica vicina per confidarle l’accaduto; ma
quando fu lì, un grosso nodo alla gola non le consentì di dire una parola. Dai
singhiozzi però l’amica comprese che doveva esserle accaduto qualche cosa di
inquietante. Quando mamma Antonia salutò l’amica ancor più desolata di prima,
volle fare qualche passo per le piccole strade del castello (erano piccole e
strette) sospinta più dall’aria che dal desiderio di scoprire i ladri delle sue
ginestre, ai quali non sarebbe riuscita a dire un “Ah!”.
L’amica, dietro, trepidante, la seguiva a
pochi passi.
Quand’ecco, dopo poche decine di metri,
vide che da un camino nero e cadente usciva davvero tanto fumo.
Senza farsi notare si accostò al
portoncino e udì tanto rumore; era il rumore tipico del risucchio dell’aria dei
grandi focolari di una volta che sembravano fornaci; a quel rumore si
frammischiavano tante brevi, secche, fitte e continue piccole esplosioni che si
tramutavano in vivaci faville, proprie delle ginestre, che sembravano anch’esse
risentirsi e ribellarsi alle voraci fiamme del fuoco.
Le sue ginestre erano proprio quelle e
stavano già bruciando sul focolare.
Dunque anche il ladro era lì.
Bussare? Protestare? Minacciare? A che
sarebbe servito?
Si strinse con la mano il foulard sotto
la gola e ritornò sui suoi passi verso la sua casetta.
Giunta sulla porta, l’attendeva un’altra
amica la quale, vedendola tanto preoccupata, le chiese che cosa le fosse mai
accaduto.
“Per i ricchi non è niente, le disse, ma
per noi poveri...” e sfogandosi in calde lacrime, le raccontò la storia e
soprattutto come avesse sentito una vocina amabile amabile che le era uscita
dal cuore e le aveva indicato la casa del ladro e che avrebbe dovuto perdonare
tutto e subito.
L’amica l’udì, si commosse anch’ella e
direttasi rapidamente alla sua casa, ritornò con tanta legna.
A mezzogiorno il pranzo era sul tavolo,
pronto e fumante per tutta la numerosa brigata che, ignara di quanto era
accaduto, mangiò dei cibi di così grande bontà come non ne aveva mai mangiato.