Nel tempo in cui san Giacomo svolgeva il
suo apostolato in Bosnia, avvenne che una volta, sorpreso dalla sera, dovette
fermarsi presso il paesello di Fojniz situato alle falde di un colle boscoso.
Sopra il paese, a metà collina e
circondato di verde, i frati di san Francesco avevano eretto fin dai tempi
antichi un grazioso conventino e vi abitavano nella quiete e nel silenzio,
intenti a meditare i misteri di Dio.
Intorno non si udiva che lo scivolare
delle acque del ruscello che scendeva dai displuvi del colle, lo stormire delle
foglie e il cinguettio degli uccelli.
Quella sera, dunque, mentre i frati erano
intenti alla preghiera comune, si sentì squillare il campanello.
Il frate portinaio, lasciando la
preghiera corale, andò al portone; ma, prima di aprire, dallo spioncino di
lamiera traforata volle assicurarsi chi fosse mai quello strano pellegrino che
giungeva a quell’ora così tarda (bisogna sapere che tutti, una volta, frati
compresi, al suono dell’Ave Maria dovevano essere in casa) e gli chiese chi
fosse.
“Caro fratello, sono frate Giacomo...”.
Non aveva ancora terminato di dire il suo
nome, che il frate portinaio, riconosciuto il Santo dalla voce, spalancò la
porta e si diede subito a suonare il campanello a tutta forza per radunare i
frati.
Non trascorsero che pochi secondi ed ecco
una turba di fraticelli, uscendo di chiesa, si precipitarono verso la porta per
vedere che cosa fosse accaduto, non sapendo se quella suonata, dati i tempi che
correvano, fosse apportatrice di belle o di brutte notizie.
Qualcuno stava già cercando qualche
bastone nocchieruto per assestare un eventuale colpo sul groppone di un
possibile malintenzionato visitatore.
Ma quando videro che lo strano visitatore
era Giacomo della Marca, il più illustre frate del tempo che andava predicando
ovunque, per incarico del Papa, la fede cristiana, le crociate contro i Turchi
(i quali più volte con le loro scorrerie avevano arrecato molti danni al paese
e al loro convento), allora tutti gli si accalcarono intorno, gli fecero festa,
e, condottolo nella sala della mensa, gli offrirono quanto di meglio avevano
nella loro dispensa.
San Giacomo, allietato di tante cortesie,
si trattenne qualche giorno con loro raccontando le vicende dei suoi viaggi, le
sue avventure, i pericoli, le difficoltà, ma anche i successi ottenuti; egli
sempre aveva cose interessanti da dire e gli ascoltatori ne avevano sempre
tante da ascoltare.
Or avvenne che in uno di quei quei giorni
san Giacomo scese nell’orto e andò a prendere un po' di aria fresca nella
selva; e lì, senza volerlo, appoggiò il suo inseparabile bastone presso il
fianco brullo di un rialzo di terra e non ci pensò più.
Un frate lo raccolse e, appoggiandosi
sopra senza volerlo, lo conficcò nel terreno e ve lo lasciò.
Tutti credevano che fosse un bastone come
tanti altri; e l’ortolano ci appendeva il cappello, il custode della stalla ci
legava la capretta, i ragazzi il cagnolino.
Intanto san Giacomo se ne andò.
Venne l’inverno e, con l’inverno, i
freddi, le piogge, le nevi che coprivano tutta la regione di una coltre di
cristalli bianchi.
Anche il bastone subì la sorte di tutte
le altre piante.
Ma poi finalmente venne la primavera. Al
primo sole, le piante si risvegliarono, si videro le prime gemme, le prime
foglioline, il primo verde che rivestì i boschi e i prati del più bel colore.
Fu proprio in primavera che si vide il
prodigio.
Anche il bastone del Santo aveva preso
vita: spuntarono le prime gemme, le prime foglioline, il primo verde.
Poi crebbe, crebbe tanto da divenire un
grande albero che regalava intorno tanto verde e tanta ombra.
Sopra, nella sua chioma, nei giochi di
luce, aria e sole, saltellanti tra i rami, centinaia di uccellini dalle più
varie forme e colori, davano continuo saggio delle loro capacità canore.
Era l’olmo di san Giacomo che richiamava
e richiama tuttora verso il convento l’attenzione di tanti pii pellegrini.