L’antica strada che dal convento
conduceva al paese di Monteprandone non è quella che transitiamo attualmente
fatta a regola d’arte secondo le esigenze del traffico moderno, ma l’altra
tuttora esistente e ancora in terra battuta che, attraversando la fitta selva
di san Giacomo, tutta querce, mirti, ornelli e tigli, tagliava di fianco la
collina e, a gironi e tornanti, andava ad allargarsi sotto le mura cittadine: a
destra conduceva sul piazzale antistante al palazzo dei Priori e, a sinistra,
verso la porta del castello detta di mezzodì, incastonata tra due possenti
torrioni.
Chi dal paese voleva scendere al
convento, alla Stella, a Pagliare, a Colli del Tronto o recarsi in Ascoli e in
Abruzzo, doveva passare di lì e viceversa.
Era dunque una strada assai frequentata.
Proprio per questo san Giacomo,
rinnovando un uso diffuso in tutto il mondo cristiano, volle mettere una croce
dove la strada, al finire della selva, si apriva al sole e curvava verso il
paese, per offrire ai passanti lo spunto per una preghiera.
Quella croce di quercia durissima,
piantata su una base di calce e mattoni, resistette al tempo bello e cattivo
per oltre quattrocento anni.
Non resistette, invece, all’opera
dell’uomo.
Il nuovo padrone del terreno l’abbatté
per avere un metro quadrato di terra in più!
Ma dopo... che fare di quel legno? Il
timone di un carro? delle doghe di botti? un giogo per i buoi? il sostegno di
un tetto? un sedile?
Non serviva a nulla: era croce e croce
doveva restare.
Stette a lungo sull’aia in attesa di
essere utilizzata; ma il tempo passò e con il tempo cominciò a infradiciare.
“Bruciamola”, concluse il padrone.
Allora le donne la portarono
faticosamente in cucina, accesero il fuoco, ve la misero sopra.
Si fece una grande fiamma e, sopra la
fiamma, posero una caldaia di fagioli.
Dopo una giornata di fuoco, tutti erano
attorno al tavolo e attendevano affamati quei fagioli; ma quando li ebbero nel
piatto, si accorsero che ancora si potevano ripiantare.
Le cose sacre non servono per gli usi
profani.