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VITA DI SAN GIACOMO DELLA MARCA

 

Patrono delle Marche

 

PRESENTAZIONE

 

         Per noi, figli del tempo delle grandi certezze scientifiche, sembra impossibile che ci sia mai stato e ci possa essere un reale rapporto, una specie di matrimonio, tra il cielo e la terra, lo spirito e la materia, Dio e l’uomo.

         Salvo poi riempire segretamente la testa e la vita di episodi legati a credulità e superstizioni, a x-files, fantascienza e cose del genere…

         La verità è che a Dio tutto è possibile; che i santi ci sono stati e ci saranno ancora e che per amore degli uomini il nostro buon Padre seminerà il campo e il giardino della storia di tanti segni della sua grazia e della sua misericordia.

         S. Giacomo della Marca è un dono di Dio all’umanità, prima della sua nascita, nella sua infanzia e giovinezza negli anni della sua lunga e faticosa vita religiosa, egli è stato oggetto oppure mezzo e strumento del grande amore del buon Dio; e non c’è da stupirsene, perché per chi è onnipotente, eterno e amante degli uomini i piccoli o i grandi problemi, di una mamma o di un frate, di un paese o di un convento, diventano semplicemente occasione di grazia. Perché è proprio vero: per Dio e per chi ragiona come lui tutto è grazia!

         E la logica di questo dono è sempre la stessa: «Ha guardato l’umiltà della sua serva e santo è il suo nome.

Di generazione in generazione la sua misercordia si stende su quanti lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha dispersi i superbi nell’orgoglio del loro cuore. Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,48-52).

         Grazie, P. Umberto, di aver raccolto queste preziose testimonianze; S. Giacomo vi appare come l’amico dei poveri e bisognosi, il fratello di tutti coloro che non ce la farebbero da soli, ma che si affidano e confidano solo in Dio.

         Auguro a tutti i lettori e devoti di S. Giacomo di fare esperienza della sua bontà, riflesso di quella suprema di Dio.

P. Ferdinando Campana

Ministro Provinciale

 

 

PREFAZIONE

 

            Sono trascorsi oramai venticinque anni da quando nel 1976 scrissi la biografia del Santo dal titolo San Giacomo della Marca (1393-1476) - Uomo di cultura, apostolo, operatore sociale, taumaturgo del secolo XV;  ma con il passare del tempo ho scoperto molte altre notizie curiose e interessanti che sono venuto appuntando via via.

            Oltre a questi miei interessi personali sono seguiti però altri studi e convegni di ben più alto livello in varie città che hanno arricchito di più e meglio la storia critica del Santo.

            Quanto ho scritto in questo libro è una raccolta di ricordi popolari ascoltati dalla viva voce della gente semplice, in cucina, accanto ai camini sempre con “frate foco” acceso, nelle maggesi e nelle capezzaie, utilizzando un piccolo registratore o addirittura un modesto blok-notes, e non può e non vuole essere materiale per gli studiosi. Vuole essere invece un’amena lettura per gli amici del Santo, la quale lettura aiuta però a comprendere meglio la sua personalità.

             In fondo, quanto venivo ascoltando dalle labbra della gente, non abituata a discorsi logici e impegnativi, aveva tutto il convinto sapore di ricordi lontani, uditi dai più anziani di loro e tramandati con abbondanza e forse anche con l’aggiunta di strani particolari pervenuti fino a noi. Di quando in quando il racconto prendeva tutti i contorni delle leggende e, è noto, le leggende hanno quasi sempre uno spunto di verità, anche se, a volte, l’entusiasmo e l’ammirazione prendonola mano ai biografi che si lasciano condurre un po’ troppo dalla fantasia.

            Si sa che la fama di san Giacomo crebbe a dismisura fino ad essere ritenuto santo ancora vivente; prova ne sia il fatto che i Priori di Ascoli, lui ancora in vita, eressero una cappella in suo onore accanto al Palazzo del Popolo, e tale cappella, che ha resistito in parte ai tempi, mostra ancora la sua effige nell’abside. Gli si attribuirono miracoli senza fine e gli si fecero percorrere strade lunghissime e pericolose in regioni impervie, facendolo arrivare, ad esempio, in Germania, in Prussia, in Frisia, in Danimarca, in Norvegia, in Prussia e perfino in Irlanda e attribuendogli predicazioni a Brandeburgo, a Norimberga, a Ratisbona, a Ulma, a Limburgo, a Francoforte, a Praga e tra i Sarmati.

            Ma per quanto gli studiosi di questi ultimi anni abbiano cercato documenti e spazi per inserire tali viaggi nella sua cronologia, purtroppo non ne hanno trovati, essendo il Santo continuamente impegnato in Italia e nei Balcani. Né il nome del Santo risulta in alcuno dei luoghi indicati.

            Fu presente invece per complessivi dieci anni nei Balcani e specificamente nella repubblica di Ragusa, in Bosnia, in Croazia, in Austria e in Polonia. Queste località hanno ancora documenti e il suo nome è ricordato a tutt’oggi insieme a quelli di san Giovanni da Capestrano e san Bernardino da Siena.

            La stessa cosa si deve dire dei miracoli; frate Venanzio, suo compagno e segretario, scrisse che “ne compì almeno centomila”! Che ne abbia compiuti tanti nel Nome di Gesù, si può accettare - era un Santo!- ma per arrivare a centomila... ce ne vuole.

            I tempi stessi portavano a pie credulità, a illusioni, a errori di valutazione e, per accrescere la stima e la devozione verso di lui, la fantasia miracolistica degli scrittori ha fatto il resto.

            Tutti gli studi più recenti portano a ridimensionare gli eccessi creati appunto da fantasie sia pure innamorate di lui; ma oggi, per il livello più elevato di cultura, piace vedere san Giacomo nella sua realtà, così come egli è stato ed è; e questo senza nulla togliere alla sua grandezza; tutt’altro, la ingigantisce.

           

            Nato a Monteprandone, in provincia di Ascoli Piceno, in una domenica del settembre del 1393 da papà Gangali Antonio, detto “Il Roscio” -forse un soprannome- e da mamma Antonia, si trovò nell’allegra brigata di ben diciotto tra fratelli e sorelle. Fece il pastorello, ma preferì gli studi. Andò in Ascoli per gli studi umanistici e poi a Perugia per quelli giuridici. Fece esperienze di giudice a Bibbiena, in provincia di Arezzo nel Casentino, ma qui la sua carriera causidica si fermò. Preferì farsi religioso alla sequela di Francesco d’Assisi che proprio a pochi chilometri da Bibbiena, sul monte della Verna, ebbe quella grandiosa manifestazione divina che furono le sacre stimmate che lo divisero per sempre dal mondo.

            Divenuto sacerdote, ebbe tutti i numeri per dedicarsi alla predicazione e all’apostolato che condusse per cinquantasei anni, quarantacinque dei quali alle dirette dipendenze dei sommi pontefici, da papa Eugenio IV nel 1431 a Sisto IV nel 1476, anno della sua morte in Napoli.

            Con lui cadde l’ultima delle quattro colonne del francescanesimo del ‘400 e attorno alla sua tomba si chinarono le autorità religiose, civiche e militari come i re, i principi, i marchesi, i conti, nonché l’intero popolo napoletano. L’arte e la letteratura contribuirono a ingigantirne la memoria.

            Nella nostra terra marchigiana, ma specialmente in quella truentina, se ne ebbero intensi riflessi religiosi che lo tramutarono a volte anche in personaggio da leggenda. E così spesso è pervenuto fino a noi come personaggio leggendario. Si spiega così anche questa piccola e modesta raccolta di racconti che chiamo appunto leggende, cioè cose da leggersi.

             Udite dalla viva voce popolare, le abbiamo raccolte, scritte e trascritte: sono 20 racconti che sono altrettanti episodi, pronti ad offrire ai nostri polmoni una folata di aria pura.

            A volte non combaciano con la storia vera; talvolta non sembrano tanto logiche; ma proprio per questo sono leggende vive, tessute nelle maggesi, nelle wore,  nelle solagne  e raccontate “da generazione in generazione”.

            Le abbiamo scritte in italiano e in monteprandonese.

            L’italiano è facile, si sa; il monteprandonese un po’ meno.

            A volte sembra inintelligibile; ma non è: canta.

            Anche nel canto, spesso, non si capiscono le parole.

            Ma qui c’è qualcosa di più.

            Il monteprandonese che affonda le sue radici semantiche nel dorico, nel greco, nell’etrusco, nel sannito, nel latino, nel francese, nello spagnolo e in chissà quali altre lande demotiche, ha parole eclettiche, tronche, devocalizzate, fuse, abbreviate, rapide, tanto rapide che, a volte, per farsi capire sono accompagnate dalle pieghe delle labbra o delle gote o da una o più rughe in fronte, da un raggrinzarsi del naso, da un movimento del gomito, da uno scatto delle ginocchia o addirittura da una spallata. Non manca mai il gesticolare delle mani. Solo guardandola da capo a fondo, una persona permette di comprendere tutto quello che vuol dire. Il gesto commenta la parola e la completa.

            Ditemi un po' come fareste a pronunciare lu cunnut  ( il condotto) nel suo suono vero senza imitare un roditore (il coniglio, per esempio) o li wore  senza mettere in azione tutti i meccanismi oronasali?

            Così pure pronunciatemi nel loro giusto suono le parole: p’d’ch’nute  (grassoccio), spr’mb’gniuole (spine), spr’nc’cò (bastone nocchieruto), c’ciuena (ragazza scellerata) o lu j’mm’te  (il dirupo) senza sudare, e scrivetemele, se potete, in forma “umana”, o non bisognerà ricorrere ai professori di fama nazionale e internazionale!

            Quando vidi una donna che, con la scopa in mano, per la strada correva dietro ad un ragazzo sgridandolo perché era sc’rujjie  (così mi sembra di aver capito), cioè nudo; e quando sentii un contadino che chiedeva al figlio che gli portasse la c’uyera  (la carriola con il pianale); e quando una bella nonnina mi presentò ai suoi familiari come lu t’iol’che  (cioè il teologo, il dotto), capii che c’era un mondo vivo e interessante da ascoltare, raccogliere e trascrivere per non mandare perduto nulla di così prezioso patrimonio popolare. Armati di carta, penna e buon umore, un giorno ci siamo messi in circolo - i ragazzi, autori di questo lavoro ed io, Anselmo, Piero, Paolo, Costantina (Ketty), Norma, Nedo, la Ranocchia... chi non li conosce? - e così, tra un progetto e l’altro, questo volumetto di leggende giacomiane ha trovato un po' di posto al sole.

            Ci ringraziamo vicendevolmente.

            Peccato, però, che il manoscritto in dialetto, prestato, sia andato smarrito!

            Non si sorprenda nessuno: non ci sono altre pretese che quelle di aiutare a far incidere anche oggi e ancora di più il nome del Santo nella mente e nel cuore del nostro popolo.

            Auguro a tutti amena lettura.

                       

Padre Umberto Picciafuoco

 

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