San Giacomo, da ragazzetto, contento o
no, doveva accompagnare al pascolo il gregge di famiglia; ma la sua ritrosia
per questo lavoro era ben nota, tanto che più di una volta vi si indusse
soltanto dopo aver ricevuto vari schiaffoni dai fratelli.
Strada facendo mangiava un pezzo di pane
e accompagnava le bestiole tenendo in mano un vincastro con il quale si
divertiva a batterlo con forza in aria per sentire il caratteristico sibilo.
Così attraversava sterpaglie e boscaglie
senza accorgersi, giungeva alla via Salaria e si spingeva fino al letto vecchio
del fiume Tronto e mentre le pecorelle brucavano l’erba e i maialetti si
avvoltolavano nelle acque lutulenti del fiume, lui coglieva more dai roveti,
fiori selvatici e faceva fascetti di vimini da portare a casa, alla sera, per
legare le viti o fare dei cestini.
Un giorno, mentre stava seduto sotto
l’ombra di alcuni pioppi intrecciando un canestrello, sentì che poco lontano
c’era un cane che abbaiava senza posa ed ecco, poco dopo, che quel cane gli si
avvicinò davvero in mezzo ad erbe così alte che quasi lo coprivano.
Domenico si alzò pronto a difendersi, ma
il cane non sembrava affatto malintenzionato; anzi, moveva la coda in segno di
benevolenza e sembrava proprio chiedergli un pezzo di quel pane che lui ancora
non aveva finito.
Domenico gliene lanciò un pezzo.
Il cane l’addentò e lo mangiò.
Poi, stando a testa alta e a bocca
aperta, ne stava attendendo un altro pezzo.
Domenico glielo diede e il cane lo
mangiò.
Gliene diede ancora e diventarono amici,
così amici che stettero insieme per tanto tempo; cominciarono a gironzolare per
la boscaglia, si tuffarono in acqua e
andarono insieme alla ricerca di nidi. Ma camminando tra sterpi e meliche, ad
un certo punto Domenico vide alcune casette.
Vi si avvicinò con la naturale cautela
dei ragazzi furbi e gli sembrò di aver scoperto una città.
Era, infatti, una città, ma non come le
altre.
Le sue casette erano tutte in fila,
separate l’una dall’altra da mura e da orticelli e quello che più lo colpì fu
il grande silenzio in cui era immersa in quel mare di verde; non si udiva che
lo stormire delle fronde e qualche rauco grido di uccelli che volavano a tratti
brevi e rapidi da una pianta all’altra, come per sottrarsi alla presenza di
visitatori indesiderati.
Domenico si accostò timidamente e si
trovò davanti a un cancello chiuso che non gli impedì però di vedere un lungo
viale che si apriva in fondo in forma di piazza con al centro una piccola
chiesa e ai lati tante casette con orti e giardini. Dietro una pianta
ornamentale vide un uomo stranamente vestito di bianco e coperto il capo da un
largo cappuccio, che con una zappa in mano era intento a riassettare le aiuole
del giardino.
“Chi sei tu, mio caro ragazzo, gli disse
quell’uomo vestito di bianco che già si era accorto di lui, e... che vieni a
fare in questo luogo così lontano dal paese? E come sei giunto fin qui?”.
Domenico, credendo di trovarsi in luogo
proibito e di disturbare, fece atto di fuggire, ma quell’uomo riprese: “Vieni,
vieni, non avere paura, vieni a vedere...”.
Allora Domenico, avendo ancora il cane
vicino a sé, si avvicinò; voleva dire qualche cosa, ma fu ancora quell’uomo a
parlare per primo e sorridendo gli disse: “Come ci hai trovato in questo luogo
solitario...?”.
Il ragazzo si fece coraggio e rispose: “È
stato lui, disse, come per scaricarsi di una certa colpa, a condurmi qui, e
indicò il cane. Ma... tu chi sei? Che cosa fai?”
“Noi, come vedi, siamo dei monaci;
abbiamo trovato questo luogo silenzioso e appartato e ci siamo fermati qui. Tu
devi sapere che i monaci sono coloro che, accogliendo l’invito ad una vita
seria ed impegnata offerto loro da Dio e da san Benedetto, l’abbracciano,
lavorano; la nostra regola dice: “Ora et labora”, cioè “Prega e lavora” e, come
vedi, noi studiamo, lavoriamo, preghiamo, là, in quella chiesetta...” e, così
dicendo, gliela indicò laggiù in fondo al viale.
Allora Domenico, seguito dal suo
cagnolino, entrò nel cancello e vide orti, giardini, laboratori, il pozzo; nel
pozzo c’era la catena e alla catena era legato un secchio.
“Mi dai da bere?” chiese Domenico al
bianco operaio del silenzio.
“Oh, sì, subito!” rispose il monaco
lasciando scivolare la catena nel fondo e traendo su un bel secchio di acqua
freschissima.
Domenico vi accostò le labbra, si dissetò
e ne diede anche al cane.
“Ma tu avrai anche fame” proseguì il
monaco guardandolo negli occhi.
Il piccolo Domenico non rispose, ma il
monaco, esperto, ricordò il vecchio detto: “Chi tace acconsente” e corse a
prendere pane e companatico.
Domenico accettò quell’offerta generosa e
ne mangiò in compagnia dell’amico cane; e intanto guardava le galline, le
pecorelle, le anitre, i porcellini, le oche, i fagiani, le tortore, i colombi e
i tanti attrezzi di lavoro, pieno di meraviglia, perché per lui, in quel
momento, tutto era una scoperta.
“Quella laggiù si può vedere?” chiese
ancora al monaco indicando la chiesetta.
Il monaco l’accompagnò; era una chiesetta
molto antica ed entrati ambedue videro tante luci.
Domenico, mettendosi in ginocchio sulle
lastre di travertino, guardando il bianco monaco disse: “Questo luogo è bello e
mi piace davvero!”. *
* È tradizione che questo luogo corrisponda alla
chiesetta dei santi Benedetto e Mauro in località La Stella di Monsampolo,
anticamente al centro di un grande monastero poi distrutto dalle acque del
fiume, ma soprattutto dal disinteresse degli uomini.