Quando, dopo il 1463, la gentile signora
Masina di Monteprandone, o forse più propriamente Tommasina, amica della
famiglia Gangali, dalla quale nacque san Giacomo detto poi della Marca , si
incontrò a Fermo con lui, dopo tanti anni, e con il suo compagno frate Venanzio
Nagni da Fabriano, le sembrò di trasecolare. Al rivedere e al riudire colui che
da tutto il mondo era ormai giudicato santo vivente e stava entrando nel mondo
della leggenda, non poté trattenersi dal rievocare gli oramai lontani anni
della gioventù e dire, forse, quel po' di storia che a lui la legava e che se
san Giacomo era quello che era, in parte lo si doveva anche a lei.
Dalle ginocchia della sua mamma molte
volte l’aveva accolto nelle sue braccia, ne aveva ascoltato il primo flebile e
tiepido alitare, ne aveva veduto, tra le prime privilegiate donne del paese, i
suoi occhietti e poi, cresciuto, lo aveva seguito via via lungo la strada della
vita fino a quell’incontro di Fermo per lei, forse, inaspettato.
Vederlo cresciuto così, in dimensioni
gigantesche, le dava le vertigini. Giacomo
non era uno studioso qualunque, un oratore qualunque, un frate qualunque.
Da lontano giungeva l’eco delle sue
attività, delle sue predicazioni, della sua santità, dei fatti prodigiosi che
accompagnavano i suoi discorsi e, in questo contesto, i monteprandonesi e, in
un piano più allargato, i marchigiani si sentivano fieri del figlio della loro
terra. Stare accanto ai principi, ai duchi, ai re, agli imperatori e agli
stessi Papi gli era usuale, e tutti in paese e in provincia parlavano di lui
come di uno che aveva fatto una carriera eccezionale: le donne in casa, al
mercato o alla fonte, gli uomini nelle cantine o seduti sui gradini, la sera,
avanti la porta di casa, gli studiosi nelle biblioteche o nei circoli di
cultura.
Quel ragazzo che era stato visto
pastorello e che aveva preso tanti schiaffi dai fratelli perché voleva studiare
anziché guardare le pecore, quel giovane che si era affermato in Ascoli e a
Perugia divenendo dottore in legge, quell’avvocato che si era distinto nel fòro
fiorentino e veniva chiamato da tutti con estremo rispetto “Ser Domenico”, ora,
sotto il saio di Francesco d’Assisi, era divenuto un personaggio celebre, uno
degli uomini più importanti del giorno, da far sentire veramente il senso delle
distanze.
E, come avviene nelle vicende umane,
quando di una persona si dice male, tutti dicono male, e quando di un’altra si
dice bene, tutti dicono bene (anche se non tutto corrisponde a verità), di lui,
di san Giacomo cioè, si cominciò a dir bene da tutti, e tanto bene quasi da
esagerare, a tal punto che ognuno si sentiva sospinto perfino ad andare con la
mente ai tempi lontani passando in rassegna i propri schedari cerebrali, nel
tentativo di scoprire cose nuove ed inedite del proprio personaggio, episodi da
ricordare, fatti da far rivivere, documenti da illustrare.
Era un uomo di onore, una bandiera di paese e bisognava
appoggiarlo, sostenerlo, farlo conoscere, perché in lui ciascuno riconosceva
parte di sé o, almeno, parte di quello che ciascuno avrebbe voluto essere, e -
non v’è dubbio - tutti sarebbero stati pronti a giurare sulla veridicità dei
fatti che ricordavano e amavano raccontare.
In quest’aura ormai di universale
simpatia, donna Masina che, come abbiamo detto all’inizio, si incontrò con fra
Venanzio in uno degli anni dopo il 1463, cioè dopo che fra Venanzio si aggregò
a san Giacomo come compagno e segretario di lavoro, non volle essere da meno;
nel coro delle tante voci che si univano concordi nel celebrare la grandezza
del figlio di Antonio e Antonia Gangali, volle inserire anche la sua e, come in
un sogno rivide il suo Domenichino -Domenico era il nome di san Giacomo prima
di farsi francescano- là, ancora come un batuffolo di rose, nel lettino, appena
nato, appena sveglio, circondato da un insolito alone di luce. Quella luce aveva illuminato tutta la stanza,
la casa e il castello; tutti l’avevano vista e ne erano restati “stupefatti”.
Ella, nella lontananza dei tempi -era
ormai molto anziana, precisa lo storico- rivedeva lo scenario come in una
trasparenza di sogno e ne era così convinta che -interessante la psicologia
femminile!- non poté tacerlo a fra Venanzio. Fra Venanzio raccolse la
confidenza e la scrisse come vera, così:
“...Dico che lui,... nacque la matina a
la aurora et quando nacque apparve uno splendore, una luce grandissima in
quella casa, de grandissima clarità, che omne homo ne fo stupefacto; et questo
l’ò saputo io già parichi anni che io era con sua Paternità (san Giacomo) a la
cità di Fermo da una gentile donna antiqua (anziana) chiamata Madonna Masina,
et lei lo aveva saputo da la mammana che se trovò quando el beato Iacobo nacque
in uno castello chiamato Monte Brandone...”.
Era nata la prima leggenda sul Santo e,
con questa, “la gentile donna antiqua Madonna Masina” passava alla storia. Le
notizie volarono: dalla mammana -
l’ostetrica, in termine più elegante ed appropriato - alla gentile madonna
Masina, a fra Venanzio, agli storici. Il passo fu brevissimo.
Nella ridda delle notizie fiorite durante
e dopo la morte del Santo, dovrebbe essere stato veramente non facile
distinguere l’avventuroso dal leggendario e dalla storia vera.
San Giacomo sembrò esserne travolto,
specialmente quando i poeti presero la mano agli storici.
Anche per noi, oggi, non è tanto facile
tracciare i confini tra l’avventura, la leggenda e la storia, e dire dove
termina l’una e iniziano le altre. Del resto, di leggende sono pieni i secoli:
eroi e briganti, maschere e fantasmi, streghe e cantastorie, re e imperatori,
papi e santi furono spesso di turno nel palcoscenico sempre a sipario aperto
della fantasia popolare.
Forse il tempo rimetterà le cose a posto.
Anche questi sono piccoli pezzi di storia
e tracce di chi ci ha preceduto nei misteriosi e sorprendenti sentieri del
passato.
Noi intanto godiamoci tanta freschezza e
così grande luce.