Quando il litorale adriatico era
disseminato di piccole, basse e povere case ove abitavano braccianti, muratori,
artigiani e pescatori, l’Italia viveva ancora in grande povertà.
Tutti dovevano lavorare duramente per poter
aprire e chiudere un bilancio familiare appena decoroso; ma la categoria che
conduceva uno dei lavori più rischiosi era quella dei pescatori.
Dotati di piccole barche a remi o di
grandi barche a vela, essi non potevano “prendere il mare” quando volevano o
quando avevano bisogno, ma dovevano attendere il momento giusto: il vento non
doveva essere né troppo forte né troppo debole e il cielo doveva avere certi
requisiti che solo essi conoscevano.
La conoscenza del cielo e dei venti era
come il segreto del loro mestiere, un segreto che dava loro senso profetico
quando indovinavano il tempo del giorno dopo.
Ma, a volte, pur osservando se le nuvole
erano più o meno oscure e se venivano da questa o da quella parte e pur non
avendo sicurezza meteorologica, spinti dalla necessità dovevano “prendere il
mare” ugualmente. La loro vita era nel mare e, se non lavoravano, non potevano
mangiare e, se non mangiavano essi, non mangiavano né le mogli né i figlioli.
Questi, quando i padri o i fratelli
partivano sul mare per il lavoro, li stavano a salutare sulla spiaggia con
l’animo in trepidazione e portavano la mano sinistra a far visiera in fronte
come per aiutare gli occhi a vedere più lontano, e la destra agitava un
fazzoletto per farsi vedere fino all’ultimo momento, fino a quando il barcone
s’immergeva nella foschia dell’orizzonte, si vedeva un puntino e poi svaniva
anche quello.
Normalmente le uscite di lavoro sul mare
andavano bene, ma, a volte, no, come accadde in una triste sera intorno agli
anni 1580, quando, dopo una lunga laboriosa giornata e quando già tutto era
predisposto per la via del ritorno, l’aria fu percossa da uno strano fremito di
freddo.
Era una folata di preavviso che i
pescatori conoscono bene. Guardando infatti verso l’orizzonte, lo videro macchiarsi
di tinte oscure.
Erano nuvole che crescevano rapidamente e
stavano riempiendo il cielo; nuvole oscure, quasi nere.
Anche il mare cominciava a cambiare
aspetto e il bel colore azzurro stava diventando del colore del piombo.
L’aria da mite si veniva raffreddando e
appena il sole fu coperto dalle nubi, il vento cominciò a soffiare e le acque
cominciarono ad agitarsi in modo sempre crescente, sicché l’equipaggio,
prevedendo tempesta, mise in atto tutta la propria esperienza per dirigersi
verso la riva; ma le correnti ostacolavano il rientro e il barcone veniva
portato più lontano.
Intanto scendeva la sera; i pescatori
avevano sempre più fondato motivo di temere di dover trascorrere la notte nel
mare.
Poco dopo si sentirono dei tuoni violenti
echeggiare da una parte all’altra del cielo e l’oscurità, spezzata dal bagliore
dei fulmini lontani o dai lampi vicini, sembrava divenire ancora più buia.
La pioggia fitta e gelida, confondendosi
con gli spruzzi delle onde che schiaffeggiavano la barca e, a volte, la
coprivano, dava oramai ai poveri pescatori l’idea di vivere i tempi del diluvio
universale.
Si ebbero momenti di terrore, ma nessuno
lo voleva manifestare per non creare la paura anche negli altri.
La barca, beccheggiante sulle acque come
un guscio di noce, a volte sembrava spezzarsi, a volte sprofondare.
Fu proprio in una di queste oscillazioni
longitudinali più violente delle altre che il piccolo equipaggio fu
scaraventato nel fondo dello scafo e tutti gli oggetti di lavoro caddero loro
addosso spostando così tutto il peso a prua e facendo perdere all’imbarcazione
la sua posizione naturale.
La lampada a olio, unico mezzo di
illuminazione, staccandosi dal suo gancio, andò anch’essa a rotolare e
spegnersi tra gli altri oggetti.
Furono momenti terribili, nei quali i
lavoratori del mare agivano solo per istinto.
Si gridò, si chiese aiuto.
Ma invano: chi avrebbe potuto udirli là
in mezzo al mare, nell’oscurità della notte e con il fragore delle onde e dei
venti?
Si gridò al cielo e uno di loro, intanto,
il più giovane, liberandosi faticosamente da quanto gli era caduto addosso,
cercò come per istinto di guadagnare l’apertura della tolda, non sapendo
neppure lui che cosa facesse.
Tenendosi con la sinistra ad un appiglio
e alzando con la destra la botola, mise il capo fuori per vedere che cosa
stesse mai accadendo, ma nel buio tetro non vide proprio nulla; anzi un’onda
fortissima lo colpì sul volto facendolo voltare dall’altra parte e inzuppandolo
dal capo fino ai piedi. Fu in quel momento che, asciugandosi gli occhi
dall’acqua salata e cercando di non perdere il controllo di sé, come per un prodigio incredibile gli
sembrò di vedere in lontananza un chiarore, una luce... fantasma.
Era come una luce che, sospesa nel cielo,
squarciava la notte e sembrava ingrandirsi di momento in momento.
Poi, al centro della nube luminosa,
sembrò prendere forma una figura come l’immagine di una persona che lo
guardava.
Gli sembrò di sognare.
Era un’allucinazione?
Controllò se stesso; no, non sognava: era
una luce vera e in quell’alone luminoso c’era davvero una figura umana.
Chiamò i colleghi che giacevano nel
fondo.
Vennero faticosamente l’uno dopo l’altro.
Sì, tutti videro quella luce e, nella
luce, quella persona.
Uno esclamò: “Ma quello sembra un
frate!”.
“Sì, disse un altro, ha il volto radioso
come un santo!”.
“Sì, dissero; non sarà il nostro san
Giacomo?”.
Allora tutti proruppero con un’unica
voce: “Sì, sì, è san Giacomo! San Giacomo, aiutaci! Aiutaci! Aiutaci!”.
La figura luminosa si librò nel cielo per
vari secondi e poi si dileguò nell’oscurità.
Quell’immagine però era rimasta intatta
nella loro rètina e aveva infuso nei loro cuori la sicurezza di essere salvi.
Le loro mogli e i bambini, a casa, che
avevano seguito con ansia la triste
vicenda, avevano pregato vegliando lungamente in lacrime.
San Giacomo li aveva esauditi e,
stagliandosi al di sopra della tempesta, e circondato di luminosità, aveva
indicato dall’alto del suo convento che il lido era vicino.